“Purificatevi del vecchio lievito, per essere una nuova pasta, come già siete senza lievito. Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo, è stata immolata, Celebriamo dunque la festa, non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e di malvagità, ma con gli azzimi della sincerità e della verità” (1 Corinzi 5:7-8).
Il termine “Pasqua” (ebraico: pesach, lett. passaggio,) deriva dal verbo ebraico pasach, che significa ‘passare oltre’.
Siamo al tempo di Mosè, il popolo di Israele è schiavo in Egitto ma Dio ascolta il suo lamento e manda proprio Mosè, che era cresciuto fino a 40 anni con gli egiziani, a liberarlo.
Tuttavia, il Faraone non è d’accordo e non accetta di perdere così facilmente un serbatoio di schiavi. Mosè allora per convincerlo, scatena una serie di piaghe che colpiscono l’Egitto. La decima è la più terribile. Tutti i primogeniti in Egitto sarebbero stati uccisi e affinché l’angelo sterminatore non entri nelle case dei figli d’Israele essi dovranno bagnare con il sangue di un agnello senza difetto gli stipiti delle loro porte.
La Pasqua vuole proprio ricordare il ‘passaggio’ del Signore oltre le case degli Israeliti. Con una cena particolare (Seder di Pesach), che si consuma seguendo un rituale ben preciso, gli Ebrei celebrano la notte di veglia in onore del Signore che, risparmiò i loro primogeniti, li liberò dalla schiavitù e li guidò verso la terra promessa.
La metafora di Paolo in 1 Corinzi 5 si richiama a questa festività e al pane azzimo, elemento fondamento in questo ricordo. Quando l’agnello pasquale veniva sacrificato il quattordicesimo giorno di Nisan, iniziava la festa di Pasqua che durava sette giorni. Prima della festa ogni famiglia doveva liberarsi del lievito che aveva in casa (Esodo 12:1-18).
Il punto di paragone e il conseguente insegnamento è che la chiesa di Corinto doveva gettare via il lievito del peccato e celebrare, ossia vivere, Cristo degnamente perché Lui e la nostra “Pasqua”.
Il vecchio lievito si riferisce al peccato in cui vivono tutti gli uomini prima di essere purificati dal sangue di Cristo.
Il parallelismo con Gesù è con l’agnello pasquale. Così come il sangue dell’agnello spruzzato sugli stipiti delle porte non colpiva il primogenito di Israele (Esodo 12:1-13), Cristo, per analogia, è il nostro agnello pasquale, il mezzo disposto da Dio per liberarci dalla dannazione eterna.
La vita del cristiano è accostata alla celebrazione della festa degli azzimi. Mentre quella durava sette giorni, la nuova vita dura fino alla morte e va celebrata con il purgamento da ogni vecchio lievito (vita passata vissuta nel peccato), per diventare una festa duratura fino al ritorno del Signore.
L’invito della Scrittura è dunque di celebrare la festa, ossia di vivere la nostra vita nella verità e nell’ubbidienza alla Parola di Dio.
I veri Cristiani non celebrano la Pasqua perché è una festa che è stata data agli Ebrei per ricordare loro un avvenimento preciso.
Nel Vangelo non viene mai comandato ai Cristiani di osservare questa festa, ma viene loro detto di vivere una vita santa e ubbidiente perché Gesù si è immolato per loro e questo non va ricordato una volta l’anno ma tutti i giorni e in particolare ogni domenica ubbidendo a un preciso comandamento, quello di ricordare la sua morte e la sua resurrezione col pane e col vino ogni domenica:
“Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo». Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati” (Matteo 26:26-29; cfr. Mr 14:22-25; Lu 22:15-20; 1Co 11:23-25).