Gesù racconta questa parabola per denunciare due disposizioni sbagliate, opposte al comportamento che Dio desidera nell’uomo: la prima è la presunzione di essere giusti di fronte al Signore, la seconda di sentirsi superiori agli altri. Il fariseo, presuntuoso e sicuro della propria giustizia, è anche un giudice spietato nei confronti del suo prossimo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini… neppure come questo pubblicano».
La parabola presenta anche due atteggiamenti di preghiera, che rispecchiano e descrivono due modi di vivere. La preghiera rivela la parte nascosta dell’uomo, i suoi sentimenti, quello che si agita nel suo cuore, le sue aspettative, le sue paure ma anche le sue speranze e la sua concezione del divino. Di conseguenza, ciò che va raddrizzato non è la preghiera (essa è frutto di qualcosa che la precede), ma il modo di concepire Dio, la salvezza, se stessi e il prossimo.
La parabola, molto semplice, presenta due personaggi: un fariseo e un pubblicano, che rappresentano appunto un modo diverso di porsi di fronte a Dio e agli altri.
Il fariseo, in realtà sta dicendo la verità. Infatti, è vero che osserva scrupolosamente la legge e ha grande spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescrive la legge, ma addirittura due. Il suo torto non sta nell’ipocrisia ma nella fiducia della propria azione. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, non si aspetta la salvezza come un dono, ma come un premio dovuto per il bene fatto.
Tale comportamento ricorda molto quello dei “testimoni di Geova” quando bussano alla nostra porta e si vantano di essere numerosi, di essere zelanti, di essere migliori degli altri perché loro vanno di “porta in porta” a predicare.
Questo atteggiamento è sicuramente bocciato da Gesù che rileva come il fariseo non stia in realtà pregando il Signore dato che egli non guarda a Dio con fiducia, non attende nulla da lui, né gli domanda alcunché. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c’è nulla della preghiera.
Il pubblicano invece mostra sentimenti opposti. I pubblicani erano gli incaricati della riscossione delle tasse. Erano al servizio degli odiati invasori romani. All’esosità delle tasse si aggiungeva spesso l’ingordigia degli esattori che per questi motivi erano considerati da tutti pubblici peccatori e nel Vangelo si trovavano accanto ai ladri, alle prostitute, agli adulteri e perfino ai pagani.
Il pubblicano sale al tempio per pregare e il suo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Non osa avvicinarsi, si ferma a distanza, si batte il petto: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Anche lui non mente, anche lui dice la verità: è al soldo dei romani ed è un ladro. Ma è consapevole di essere un peccatore, sente il bisogno di cambiare e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla di cui vantarsi e non ha nulla da esigere. Può solo chiedere e avere fiducia. Fa affidamento su Dio, non su se stesso.
È questa l’umiltà di cui parla la parabola, questo l’atteggiamento che Gesù loda: la consapevolezza di essere tutti dei peccatori e la volontà di cambiare mostrando un ravvedimento sincero e concreto.
La conclusione è chiara: l’unico modo corretto di porci di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è sentirci costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore.
L’unico modo per avvicinarci al Signore è riconoscere i nostri peccati e manifestare la volontà di ubbidire alla sua voce, ascoltandola e meditandola seriamente, ravvedendoci ed essendo battezzati per la remissione dei peccati per rinascere nuove creature che cercano di vivere seguendo le orme del Risorto, tracciate nel Nuovo Testamento.